martedì 14 febbraio 2012

Progresso

Non che sia tanto in vena di parole, a dir la verità.
Ma questa frase sì, davvero non me la posso far scappare. Pensando alla vicenda della Grecia, e non solo.

"Quando pensiamo al futuro del mondo, lo immaginiamo sempre nel posto in cui sarebbe se avesse continuato a procedere come lo vediamo procedere adesso, e non teniamo conto del fatto che la sua strada non è diritta, ma curva, e che la direzione cambia costantemente"
(Wittgenstein, 1977)

Costanza Alpina

giovedì 10 novembre 2011

Politica vera cercasi

Mesi sono passati e sembrano anni. L'ottava potenza industriale del mondo è sotto l'attacco della speculazione. Si parla dell'Italia come della Grecia, si parla di "baratro", "default", "collasso".
Possibile che sia successo tutto così in fretta?
In realtà, non poi così in fretta.
Quello che sta accadendo in questi giorni, e che ci coglie tutti bene o male sorpresi, increduli, spaventati, è il risultato di anni di incurie, disattenzioni, valutazioni sbagliate, e spesso peggio: passi falsi, passi sbagliati, scelte miopi, omissioni.




E' tutta colpa di Berlusconi?
Certamente no.
Acquisterebbero credito anche le forze avversarie a riconoscerlo.
Eppure la regola è sempre quella: chi ha più potere ha più responsabilità, quindi più colpe.
Berlusconi, e con lui l'Italia tutta purtroppo, sta espiando in questi giorni la colpa di aver creduto che la politica fosse un affare come tutti gli altri, anzi, meno degli altri: se per svolgere un'attività, una professione, anche solo un hobby, occorre conoscerne le regole, i trucchi, le dinamiche, occorre in una parola avere una corrispondente professionalità, ci si è voluti illudere che con la politica no, fosse diverso: la politica la possono fare tutti, dalle soubrette agli imprenditori, dagli avvocati alle igieniste dentali. Basta avere dialettica e una bella presenza, charme telegenico o un parente influente. Oppure basta aver avuto successo altrove, nel costruire un impero della comunicazione ad esempio. Così Berlusconi ha conquistato l'Italia per 17 lunghissimi anni: vendendosi come l'uomo nuovo contro la vecchia politica di palazzo, il miliardario deciso a far fare fortuna anche agli italiani, l'imprenditore di genio che voleva passare alla storia passando per il cuore degli italiani.

L'incantesimo si è spezzato.
La sua "simpatia" non è bastata, l'incrollabile ottimismo neanche. Anzi, hanno contribuito a danneggiarlo. Hanno fatto che sì che, un anno dopo l'altro, non fosse più preso sul serio. Quando ci si mette poi anche la crisi economica mondiale a mordere, la sfiducia dei suoi ex colleghi impreditori, i sorrisetti di sufficienza dei patners europei (ben poco apprezzabili in quel momento ridicolo), allora succede come ieri: che ogni volta che apre bocca, la Borsa italiana precipita ancora più giù.



E' presto per fare pronostici, soprattutto su come evolveranno la confusione politica e la instabilità economica.
Ma due considerazioni già si possono fare, mi sembra:
La prima è che la difficoltà di questi giorni è una doccia fredda di sano realismo (che farebbe gongolare il grandissimo, sempre troppo inascoltato Max Weber). La politica è un mondo a sè, non interscambiabile nè sovrapponibile con altri. Guai a sottovalutarne le regole, il valore, la difficoltà. Guidare un'azienda è diverso che guidare un'istituzione, il rapporto che si ha con i dipendenti non è quello che si deve avere con i parlamentare o gli elettori. Perchè la politica non è uno spazio residuale rispetto ad altre attività, ma è ciò che le rende possibili, quelle attività. Per questo rivendica i suoi principi: tre fra tutti, 1) non parlare a vanvera; 2) pensare che tutto ciò che si fa si paga in termini di credibilità collettiva; 3) la politica è sempre un rapporto di poteri in equilibrio precario.



La seconda considerazione è uguale alla prima ma in prospettiva rovesciata. Ossia, è che questa maledettissima crisi ci fa ben sperare. Perchè dimostra che alla fine i conti tornano. Non si può andare avanti impunemente per quasi un ventennio a vendere promesse, barzellette, finte rassicurazioni e talvolta bugie. La politica non lascia conti in sospeso, non perdona, non dimentica. Perchè non scordiamoci che la situazione economica italiana, le aziende, le banche avranno sì problemi, difficoltà, debolezze ma non a quei livelli catastrofali a cui gli indici finanziari di queste ore fanno pensare. L'impennata del valore dei titoli di Stato e l'impennata al contrario della Borsa sono il riflesso di una mancanza di fiducia (degli investitori, dei cittadini, dei partner economici, del mondo) in una guida politica che stenta, che arranca, che sembra non esserci, e anche quando c'è non appare autorevole. Non abbastanza per l'ottava potenza industriale del mondo. 



Certo, l'aspetto drammatico è che il conto lo dobbiamo pagare tutti noi, non si sa ancora per quanto e a quali sacrifici. Saremo da subito più forti però se impareremo che è possibile cambiare e per farlo non serve l'uomo della provvidenza. Serve una politica realistica, lungimirante, responsabile, servono cittadini animati dal desiderio di realizzare il bene comune, servono politici che conoscono la gravità del loro compito e non se ne spaventano. Serve il coraggio di pensare in grande e al futuro. Serve la volontà di rivendicare una politica che sia all'altezza delle nostre potenzialità, dei nostri talenti, dei nostri desideri.
Della nostra amata Italia.

Costanza Alpina


giovedì 5 maggio 2011

Le ragioni del cuore


Nella "scienza del disincanto" ho trovato la migliore risposta al successo globale di William e Kate, che qui di seguito vorrei condividere con voi:

"Una famiglia reale addolcisce la politica insaporendola con eventi piacevoli e graziosi. Introduce fatti irrilevanti per l'amministrazione del governo ma capaci di parlare al "cuore degli uomini" e di tenere impegnati i loro pensieri ... 


La monarchia è una forma di governo dove si concentra l'attenzione della nazione su una persona che fa cose interessanti. Una repubblica è un governo in cui l'attenzione è divisa tra molti che fanno cose per nulla interessanti. 
Pertanto, fintanto che il cuore umano sarà forte e la ragione umana debole, la monarchia sarà forte perché fa appello al sentimento diffuso, e le Repubbliche deboli perché fanno appello alla comprensione".
(Walter Bagehot, 1867)

Costanza Alpina 

venerdì 29 aprile 2011

The Royal Wedding


Il gran giorno è arrivato. E non ci vergogniamo a dire che lo seguiremo anche noi. Anche noi, in pigiama e tisana alla mano causa fuso orario, saremo davanti al televisore a vedere il biondo principe William dire il suo sì a Kate Middleton, prima non nobile da 500 anni a questa parte a convolare a nozze con l'erede al trono della più famosa monarchia del mondo.
L'evento non è solo storico. E' simbolico, ed è tremendamente moderno.

Questa giovane coppia è riuscita in poco tempo a scaldare di nuovo i cuori dei sudditi di Sua Maestà per un'istituzione che, a livello di immagine e percezione, non godeva di ottima salute, causa scandali, crisi economica, rumors e inadeguatezze. Ma la febbre reale si fa sentire non solo nel Regno Unito. Perfino nel democraticissimo Canada il "matrimonio del secolo" sta risvegliando sentimenti di ammirazione e orgoglio per la "loro" monarchia transoceanica; e non tra i vecchietti, ma tra gli studenti che affollano le aule universitarie d'ultima generazione.
I due neanche trentenni fidanzatini sono diventati un fenomeno globale.

Ma perché mai? perché da settimane non si fa che parlare d'altro e tutte le notizie legate al "Royal Wedding" sono tra le più cliccate del web?


William e Kate incarnano il sogno che si avvera, la favola che diventa realtà. Sono belli, eleganti, sorridenti, ricchi, complici e innamorati. A differenza di molti altri matrimoni reali, i loro gesti, il loro presentarsi in pubblico suscitano la percezione che questa volta le ragioni di Stato si siano conciliate con le ragioni del cuore. Il figlio della principessa triste ha trovato la sua "altra metà del cielo", ha potuto incontrare e scegliere la donna con cui condividere il suo fardello e la sua fortuna. E lei, una ragazza discendente da minatori, non un filo di sangue blu, è moderna, sicura, spigliata, elegante: guarda il suo principe e sembra che voglia proteggerlo, per fargli gustare le gioie più semplici e più vere, quelle dei sentimenti.

William e Kate danno l'illusione di essere persone normali baciate dalla fortuna e dal successo, felici per nascita e per destino. Non è dato sapere se è per natura o per educazione e preparazione, fatto sta che li vedi sfilare davanti alle telecamere senza timidezze, lui attento e premuroso, lei discreta e sorridente, e pensi che sono fatti per essere sovrani, e al contempo per stare insieme. Non sono un miracolo?


Certamente sono un miracolo di comunicazione.

Tutta l'eccitazione che l'evento sta provocando in ogni parte del globo è la migliore conferma che le persone hanno un inespresso e travolgente bisogno di sogni. Hanno bisogno di illudersi e di credere, almeno ogni tanto, che uscire dall'ordinarietà quotidiana è possibile, e che anche le favole possono essere reali, da qualche parte nel mondo, a qualche rintocco di orologio. Forse anche di credere che c'è un sogno per ciascuno, chissà.
William e Kate mostrano in modo prepotente e al contempo fascinoso quale grande potere ha la bellezza nell'immaginario collettivo: ciò che è bello attrae, seduce, conquista, emoziona, suscita rispetto e simpatia, ammirazione e curiosità. Quando qualcosa è naturalmente bello ed elegante, si è più disposto a prenderlo sul serio, a fidarsi, a lasciarsi conquistare dal suo incanto.
E poco importa che sia un mito, una finzione, un cerimoniale.
I futuri sposi appaiono, e quindi sono: belli e felici.

Domani la "commoner" sposerà il suo principe e per un momento il mondo all'unisono si commuoverà, pensando che forse davvero la magia può essere a portata di mano.
(Un vero colpo di fortuna per la regina d'Inghilterra Elisabetta II, incarnazione vivente di ogni regale accortezza e diplomazia)
Costanza Alpina

lunedì 11 aprile 2011

Vergognosa (ir)responsabilità di Germania

Così riporta il Corriere della Sera di ieri riguardo ai flussi migratoria provenienti dal Nord Africa e la politica EU:


«L'ITALIA NON SCARICHI AD ALTRI IL SUO PROBLEMA» - Rincara la dose Joachim Herrmann, ministro dell'Interno dello stato tedesco della Baviera. Ha stroncato l'Italia sulla nuova politica di emettere visti per i migranti provenienti dal Nordafrica e minaccia di ripristinare i controlli ai confini per tenerli a distanza. Parlando all'edizione domenicale del quotidiano Welt, Herrmann ha detto che l'Italia «deve affrontare da sola il suo problema dell'immigrazione e non scaricarlo sugli altri Paesi dell'Unione europea». 




Ora, non so se queste parole siano vere o se saranno smentite, secondo una prassi ormai in voga tra i politici di mezzo mondo, per cui dichiarazioni rilasciate vengono sempre interpretate male.
Se però non saranno smentite e se corrispondono a verità, inducono a una sola reazione: vergogna. Perché sono l'espressione di una inaudita arroganza e di una altrettanta inaudita ottusità. E questo solo perchè i confini del libero Stato di Baviera, come quelli di tutti gli altri Länder altrettanto liberi, sono saldamente circondati da montagne e non corrono il rischio di avvistare barconi o traghetti che ne insediano la sovranità. Per questo c'è già l'Italia, e le sue coste affacciate sul mare.


Dire che l'Italia deve affrontare da sola il problema dell'immigrazione significa che la Germania non vuole interessarsi ai problemi dell'Europa perchè non le conviene, perchè è più comodo, perchè è impopolare farlo. Ma allora i tedeschi la smettano di voler anche fare i padri morali dell'Europa all'insegna del sempre politically correct. Con il loro atteggiamenti di questi giorni si rendono infatti passibili degli stessi sospetti e delle stesse accuse che loro erano i primi a rivolgere agli italiani la scorsa estate: ossia di essere insensibili ai diritti umanitari perchè (si diceva) negavano i soccorso ai barconi stracolmi di gente assetata provenienti dal mare




Che l'Italia sia in clamoroso ritardo nel dotarsi di una politica dell'immigrazione è chiaro. Ma questo non smuove di una virgola i termini dell'attuale problema: ossia che ci troviamo di fronte a una emergenza umanitaria derivante da una instabilità politica diffusa in una zona del mondo con cui l'Europa, bene o male, deve fare i conti. Se la Germania vuole illudersi o fare finta che questo non la riguarda, si deve prendere la sua parte di vergognosa (ir)responsabilità.


Costanza Alpina

sabato 5 marzo 2011

Scuola

Una delle (tante) ultime uscite di Berlusconi che ha creato polemica e scontento è stata quella sulla scuola pubblica. Chissà poi alla fine quali sono state le sue parole vere. Meno dubbio è che questo governo certo strizza l'occhio volentieri alla scuola privata, o paritaria che dir si voglia, e non disdegna qualche aiutino.La questione è complicata, ma proprio per questo mi hanno colpito le parole di Nichi Vendola all'indomani dell'uscita del premier. Il Paese, sostiene il governatore Pugliese, deve investire nella scuola «perché è il cuore della crescita economica». e poi rivolgendosi a Berlusconi aggiunge: «Capisco che lei sente inimicizia verso la scuola pubblica perché è stata la crisi della scuola pubblica nel quindicennio delle sue televisioni a creare un'egemonia culturale che serve a questa classe dirigente ad avere una generazione narcotizzata dal trash e dalla pornografia». 
Ora, è probabilmente tutto vero. Ma non facciamo gli struzzi: perché mi scusi, caro Vendola, la sinistra dov'era in quei 15 anni ? Non è forse stata anche lei qualche volta al governo? E cos'ha fatto di concreto per ridare dignità alla scuola pubblica? Non sa forse che dell'incuranza, financo del declassamento della scuola e dell'università pubblica italiana hanno una parte di responsabilità anche i vari ministri targati a sinistra, dalla Jervolino a Mussi, passando poi per la pessima riforma di Berlinguer? 
Su una cosa Berlusconi almeno ha ragione: per qualificare la scuola e il suo ruolo nella società non bassa assumere persone in massa o dare una laurea senza meriti.

Costanza Alpina

venerdì 25 febbraio 2011

Europa

Sono un'europeista convinta ed entusiasta. Credo che l'Europa unità sia una delle conquiste più belle degli ultimi decenni, se non secoli. E non potrebbe essere diversamente visto che anche io, italiana in Germania, sono tra i tanti che quotidianamente sperimentano il significato concreto della libertà di movimento, del reciproco riconoscimento tra Stati, della moneta unica, delle collaborazioni cross border. Ma proprio perché credo nell'Europa e sono orgogliosa di questa visione, di questa conquista, non condivido il comportamento assunto dalle istituzioni Europee verso il problema dei flussi migratori che investono le nostre coste, e che a seguito della crisi in Nord Africa stanno assumendo, e assumeranno, dimensioni davvero straordinarie. 
Già in passato, e ripetutamente, l'Europa se ne è lavata le mani e ci ha lasciati soli. E questo perché i Paesi più influenti e autorevoli (l'Europa è sì unita, ma si sa, ci sono vari livelli di peso e vari toni di voce) non sono toccati in prima linea dal problema, visto che la loro posizione geografica li mette al riparo dai barconi. Il problema è stato declassato a problema nazionale: il che vuole dire, ciascun Paese si gestisca i suoi immigrati da solo. Tanto possono arrivare solo da chi ha le coste a portata di barca, quindi non in Germania (sempre la prima a parlare politically correct e poi...) , non in Olanda o in Belgio, non in Svezia o su di là... 

Anche ora che il Nord Africa sta esplodendo e la gente, poveraccia, si organizza a fuggire, l'Europa fa la buona e si appella alo spirito umanitario, ai principi della carità e dell'accoglienza, ai diritti umani. Il che è giustissimo. Ma i buoni sentimenti vanno accompagnati da aiuti concreti, da un intento di vera collaborazione, da un progetto internazionale di aiuto e supporto, da un piano internazionale di assistenza. Altrimenti è solo ipocrisia. Non basta dire: gli italiani non possono rifiutare i profughi, devo accoglierli, ospitarli e quant'altro, perché tanto si sa che quella gente può arrivare solo fino in Italia e poi fermarsi stremata. Occorre che anche chi non vede i propri confini varcati da profughi e sfollati si senta responsabile e si dia da fare per intervenire, per aiutare l'Italia a fare fronte a quella che è ben più di un'emergenza nazionale. Un piede in Italia è dopotutto un piede in Europa, e dunque, Europa, fatti vedere. Dove sei? Perché sei così ritratta e "sulle tue"?


Non vorrai mica farmi intendere che il tuo rifiuto a essere collaborativa è (anche) una reazione di dispetto verso un Paese, ma prima ancora verso un governo e un Presidente del Consiglio che troppo spesso si dimostrano non all'altezza della situazione (a cominciare dall'amicizia con il leader libico)? Davvero sei disposta a barattare la grandezza della tua identità in costruzione per fare un dispetto politico? Davvero hai così bassa considerazione di te sessa? 
Se così fosse, la tua sconfitta sarebbe doppia. Perché perderesti credibilità di fronte a quelle persone in fuga dal massacro, e perderesti la fiducia dei tanti italiani che vedono in te la "casa" del loro futuro.
Se non è così, fai sentire la tua voce e il tuo aiuto, fai vivere l'ideale che ti ha creata. Gli italiani sono tra i popoli più generosi che ci siano, e non si risparmieranno nemmeno questa volta. Ma non si può fronteggiare da soli un esodo di massa.

Costanza Alpina 

martedì 15 febbraio 2011

Era il 2008...

A maggior ragione ora che Silvio Berlusconi è stato rinviato a giudizio anche per prostituzione minorile, si fa tanto parlare di donne, corpo, e politica. Siamo nel 2011. Eppure già tre anni fa, nel 2008, si scriveva così: 
L'eclatante nomina [di Mara Carfagna a Ministro], più che essere un segno dell’avanzata delle donne nella società e nei ruoli che contano, dell’accrescimento della loro presenza e autorevolezza e del potenziamento della loro consapevolezza anche politica, si dimostri una prova della progressiva conversione della politica in spettacolo mediatico. O se vogliamo essere ancora più eloquenti: della decadenza della politica a fenomeno di spettacolo, a sistema di spettacolarizzazione coatta. Stesse logiche, stesse regole, stesse priorità.
[...]
La sua storia, dagli esordi alla gloria del momento, e proprio nel suo svolgersi mediante un passaggio a mondi ed esperienze diversi da quelle di origine, cioè dallo spettacolo alla politica, corporeizza la concezione che questo governo ha della donna. 



[...]
E' quantomeno sintomatico che una ex show girl venga nominata gerente italico dell’alto valore della parità. L’atto in sé, senza riferimenti alle competenze che Mara certamente sarà in grado di dimostrare, denota con chiarezza, anche se sottile, quale impari concezione della donna sia dominante in quella parte politica. La quale battezza a garante del principio dell’equità tra generi una donna che nel suo genere aveva raggiunto l’apice del successo: è la celebrazione della donna tutta corpo e curve, della donna regina dell’esibizione e del divertissement leggero, subalterna e dipendente, se non altro dall’immagine meticolosamente confezionata per vellicare l’orgoglio macho dell’uomo spettatore. Ecco perché sulla seggiola delle Pari Opportunità la bella Mara si trova perfettamente nel suo elemento. Dopotutto non ha avuto proprio lei l’opportunità di mettersi alla pari con il genere maschile? Naturalmente, ça va sans dire, in misura proporzionale alle indiscutibili diseguaglianze di genere. Un simile talento va additato ad esempio. E dunque via, reverenza al Ministro.
Evviva evviva, ripetiamo in coro, a ciascuno il suo.
Per il bene di tutti.
Soprattutto degli uomini.
[...]

La nomina di Mara Carfagna a Ministro della Pari Opportunità è come una vittoria di Pirro delle donne italiane: fittizia, inconsistente, addirittura controproducente. Certamente simbolica, ma di un simbolismo rovesciato. È come un contentino elargito con tenerezza, non lo si mette in dubbio, ma in fondo anche con una buona dose di compassione e ben nutrito autocompiacimento. Significa nominare una donna per omaggiare il maschilismo.



Costanza Alpina

Italiani all'estero

Nel giorno della mobilitazione nazionale a difesa della dignità (delle donne e dell'Italia), leggo sul Corriere della Sera l'intervento della corrispondente da New York, Alessandra Farkas. La quale si dice tentata, nell'anno di ricorrenza dei 150. anni dell'Unità nazionale, di rinunciare alla cittadinanza italiana: il motivo, immaginabile, è la difficoltà a riconoscersi nel Paese che aveva accolto la sua famiglia scampata all'Olocausto e che insieme all'ospitalità le aveva dato un futuro. Un Paese, scrive, disonorato dalla sua stessa classe politica, incapace di dimostrarsi serio e affidabile, incompreso (e incomprensibile) nella sua assurdità, e per questo considerato irredimibile.
Il sentimento non è solo della giornalista. Ma, ed è lei stessa a riconoscerlo, di tanti italiani sparsi negli States e nel mondo che guardano con crescente insofferenza e distacco gli scandali di un'Italia lontana, sempre più lontana, sempre meno sentita come propria origine, tanto meno come meta di ritorno.

E' così. Chi vive all'estero, ormai da anni, deve fronteggiare la curiosità, l'incredulità, lo scetticismo, talvolta l'ironia e la supponenza. Sempre deve convivere con un senso di disagio, accresciuto spesso dal trovarsi quotidianamente a vivere in realtà che confina ai sogni peggiori, o alle più trash delle commedie, i fatti diventati routine a casa nostra.

Eppure: sarebbe una soluzione  rinunciare alla cittadinanza come segno di protesta? a cosa porterebbe? certo, forse in coscienza la dissociazione arrecherebbe un senso di alleggerimento, e pubblicamente potrebbe essere proposto e riconosciuto come segno di distinzione. Ma nell'economia del tutto sarebbe un gesto simbolico sì, ma pressoché inutile. Anzi, non sarebbe piuttosto una forma di esilio volontario, e quindi, come ogni esilio, una limitazione, una perdita, una sconfitta?
Chi fugge o si nasconde, è sempre destinato a perdere. Chi rifiuta il dialogo e talvolta lo scontro è un perdente già in partenza. Solo chi rimane e insiste, ha speranza di vincere, per quanto lungo possa essere il confronto. Insistiamo dunque nel chiedere una politica decente e decorosa, nel rivendicare una giustizia sociale efficace, nel pretendere una patria credibile. E facciamolo da italiani: con i gesti concreti e quotidiani con i quali viviamo le nostre vite all'estero, con la nostra vitalità e brillantezza, con la capacità di lavoro e la nostra umanità. Facciamo sì che la nostra italianità sia un valore aggiunto anche all'estero. Facciamo in modo di mostrare che gli italiani sono più affidabili e coerenti di chi li rappresenta e che l'Italia può essere meglio della sua politica.

Costanza Alpina